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. NOTE TECNICHE: |
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I Conti di Bìandrate furono scacciati dalla valle e dichiarati nemici del popolo valsesiano. I loro castelli furono distrutti sia come rappresaglia per le angherie subite, sia per impedire nuovi insediamenti feudali. La libertà dei valsesiani durò quasi trent’anni. Nel 1402 Francesco Barbavara ebbe in feudo la Valsesia. Il Castello di S. Stefano fu ricostruito ed il Barbavara si comportò, nei riguardi dei suoi sudditi, alla stessa stregua dei precedenti feudatari, tanto che in quel di Varallo e di Rocca Pietra, ancora adesso, il nome di Barbavara suona male. Dopo 13 anni nel 1415 i valsesìani si liberarono definitivamente dal feudalesimo. Il Barbavara si vide costretto a lasciare precipitosamente la Valsesia ed il castello venne nuovamente distrutto. Questo è quanto storicamente accertato. Però sul castello e sulle sue vicissitudini esistono alcune leggende. Una di queste narra di un ricco contadino di Rocca Pietra che, dovendo sposarsi, salì al castello per chiedere al feudatario di rinunciare al diritto della prima notte, diritto che il signorotto aveva nei riguardi delle spose dei suoi sudditi. Il feudatario accettò in cambio di ricchi doni. Ma quando vide la sposa se ne invaghì talmente che disdisse la parola data. Per lavare l’onta subita il ricco contadino dì Rocca Pietra radunò i propri parenti e quelli della sposa. Si formò un gruppo di una decina di congiurati decisi a tutto. Mentre un mutulo lavorava a portare covoni di fieno i congiurati si infilarono di nascosto nei covoni stessi, riuscendo a penetrare nel castello senza essere visti. Quando il feudatario e i suoi parenti si riunirono a banchetto i congiurati uscirono dal loro nascondiglio. Sopraffecero le guardie e piombarono nella sala da pranzo uccidendo tutti quelli che vi trovarono. Solo una donna, una discendente dei Conti di Biandrate, fu salvata e consegnata ai congiurati che ne approfittarono. Così ridotta fu rispedita ai suoi a Biandrate. Un'altra leggenda narra di un ricco mercante francese che, partito dalla Provenza per un pellegrinaggio a Roma, strada facendo, chiese ospitalità ai Conti di Biandrate. Un rampollo dei Conti, innamoratosi della di lui bella e giovane moglie, la trattenne per se. Il mercante fu costretto a continuare il viaggio da solo. Tornato in Provenza assoldò una numerosa schiera di mercenari coi quali ridiscese a Biandrate deciso a riprendersi la moglie. Ma nel frattempo costei ed il rampollo dei Conti si erano rifugiati in Valsesia al castello di S. Stefano, convinti di aver trovato un rifugio sicuro. Infatti per metà le mura del castello sorgono a filo di insuperabili rocce a picco. La restante parte boscosa é segnata da una sola e stretta mulattiera facilmente difendibile. Non è dato di sapere come i mercenari siano riusciti ad espugnare il castello. Sta di fatto che, secondo la leggenda, lo fecero. Liberarono la giovane moglie del mercante e passarono a fil di spada tutti quelli che vi trovarono. Fu salvato solo il rampollo dei Conti di Biandrate che fu rispedito ai suoi, dopo essere stato privato degli attributi maschili. È certo che tutte le leggende hanno un fondo di verità: la fantasia popolare non arriva ad inventare cose nuove, ma parte sempre da fatti realmente accaduti. È quindi ipotizzabile che, nel castello di S. Stefano, sia avvenuto qualche fatto d'armi per vincere le ultime resistenze dei Conti di Biandrate. Attualmente del castello, ormai conosciuto col nome di Castello di Barbavara, restano solo i ruderi. La sua costruzione ha richiesto un impegno economico e tecnico non indifferente. Il materiale necessario è stato trasportato sul posto dalla valle superando un dislivello di oltre 200 metri. Inoltre la cima non è pianeggiante, ma presenta una differenza di quota di 15 metri. Da qui la necessità di impostare i vari locali su piani diversi, presumibilmente tre, collegandoli con rampe o scale. Ancora visibile il portale d’ingresso. Sul muro verso Rocca Pietra sono evidenti due feritoie. Visibile una piccola cappella con abside. Un discorso a parte merita la cisterna per la raccolta dell'acqua. Il soffitto era a volta di cui si vede ancora la parte più bassa. La pianta è rettangolare. Sui lati minori esistono due aperture che potevano servire per il carico dell’acqua, oppure per il suo prelievo a mezzo di un pozzo e di un sifone. Quello che resta non consente di avanzare altre ipotesi. La vista sulle montagne circostanti è discreta. Visibili le punte del Monte Rosa dalla Parrot al Nordend, le catene Monte Capio - Massa del Turlo e Pizzo - Res - Luvot. Sul fondo della valle, come su una carta geografica, è dato di ammirare Varallo col suo Sacro Monte, Crevola, Rocca Pietra, Quarona, Doccio ed altre località. Si distinguono inoltre nettamente le vetture che circolano sulla strada della Valsesia. Nel ritorno si può indugiarsi ad osservare, sul Piccolo Pianoro, una baita diroccata e numerosi muri di sostegno a secco, con rampe e scale di accesso fra i vari terrazzamenti. Singolare la presenza di nicchie che servivano da riparo per le galline in cova. Queste opere sono state realizzate per strappare alla montagna terreno da coltivare a prato. Non è da escludere che i muri di sostegno siano stati costruiti con materiale ricavato dalle rovine del castello. Sul Grande Pianoro si trova una stalla con annesso locale, anche questi diroccati. Ancora visibile una finestra con inferriata. Queste opere hanno dato da vivere a parecchie generazioni di contadini di montagna, anche se a prezzo di un duro impegno e di tanta fatica. Sono state poi abbandonate, e sono andate in rovina, quando lo sviluppo industriale della pianura offriva posti di lavoro più comodi e meglio remunerati. |
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